Marzo 2019, la propaganda del Congresso Mondiale delle famiglie arginata da docenti e ricercatori dell’Università di Verona.
Non mancarono di accusare buona parte delle imposture e dei dogmi pseudoscientifici che sono di volta in volta serviti per alimentare la mitologia della famiglia cosiddetta naturale (ossia definita dal suo essere patriarcale, eterosessuale e bianca). È singolare tuttavia che, nell’esaustiva lista di obiezioni sollevate, l’unico riferimento alla questione della sessualità concernesse «la patologizzazione dell’omosessualità e della transessualità e di tutte le forme di orientamento sessuale e identità di genere non ascrivibili a maschio/femmina eterosessuale».
Non compariva infatti alcun diretto riferimento a quell’opera di patologizzazione della sessualità in quanto tale che contraddistingue il fondamentalismo politico-religioso nelle sue diverse declinazioni. Proprio una simile mancanza sembra indicare, sintomaticamente, un certo disagio nei confronti del sessuale, là dove esso si trova ad essere materia di rivendicazione: riducendo la posta in gioco dell’opposizione al WCF alla conferma di normalità anche per gli orientamenti e le identità considerati devianti, si finisce per dimenticare che la questione non concerne soltanto le minoranze colpite da un simile stigma, ma tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno finito per scontrarsi con il carico di oppressione che la stessa idea di normalità reca con sé. L’errore, in altri termini, consisterebbe nel non riconoscere, proprio nella violenza che si abbatte su tali minoranze, il punto di massima intensità di una violenza diffusa, che non manca di interpellare ciascuno secondo le specifiche forme del suo posizionamento e del suo orientamento.
Le ricerche di Lorenzo Bernini
Preziose sono, in tal senso, le ricerche proposte da Lorenzo Bernini nel recente Il sessuale politico. Freud con Marx, Fanon, Foucault (Edizioni ETS, Pisa 2019), il quale non esita a riconoscere la persistenza di un disagio verso il sessuale, persistenza che si ritrova tanto nei discorsi tradizionalisti quanto nelle retoriche apparentemente più progressiste. Respingendo quella negazione radicale a cui la tradizione filosofica occidentale ha sottoposto la materia erotica, l’autore del libro afferma piuttosto che «una comprensione del politico non dovrebbe prescindere dalla consapevolezza della presenza del godimento sessuale ai confini del sociale, come ciò che è rimosso e continuamente torna a disturbare l’accesso del soggetto all’ordine della civiltà» (p. 221). Una consapevolezza che la filosofia è stata in grado di conquistare tardivamente, se, come ricorda Bernini, soltanto nell’ultimo secolo, e persino a prezzo dell’irrimediabile perdita dei suoi dogmi più tenaci (tra tutti, la concezione dell’uomo come di un essere razionale, padrone di sé, votato all’economia e alla conservazione), il pensiero occidentale ha saputo accogliere l’inquietudine del sessuale, proseguendo sulla strada inaugurata da Freud e dalla psicoanalisi.
Da qui la necessità, se non si vuole rischiare di perdervisi, di strutturare, inquadrare, circoscrivere e controllare un simile territorio, al punto che la psicoanalisi stessa finirà per riconoscere, nella sua colonizzazione, un’opera di civiltà (il famoso motto «dove era l’Es, deve subentrare l’Io» tanto discusso da Jacques Lacan). Ripercorrendo le tappe e gli slittamenti della ricerca freudiana sul sessuale, Bernini dimostra come lo stesso Freud sia stato così turbato dalla scoperta delle pulsioni da rimaneggiare per anni la propria teoria nel tentativo, benché fallito, di imbrigliare il godimento entro una visione riproduttiva e utilitaristica della sessualità. D’altra parte, l’impressione complessiva che si ricava dalla lettura del corpus freudiano è che il suo autore «si sforzi continuamente di ricondurre la sessualità umana alla norma eterosessuale» (p. 75) senza tuttavia riuscirci: «il ruolo perturbante della pulsione sessuale» (p. 264), così come esso è emerso nel solco della cultura e della civiltà occidentale, con il suo battito ottuso ribadisce incessantemente che non esiste norma per il sessuale. E se le cosiddette minoranze sessuali o etniche si si sono trovate, loro malgrado, a incarnare il lato selvaggio, non educabile e contro natura del sesso, «oltre i limiti di ogni civiltà» (p. 139), ciò non toglie che anche la presunta maggioranza eterosessuale, nel momento in cui osa penetrare nel dominio del sessuale, finisce per scoprirsi a sua volta maggioranza deviante.
L’impossibile necessità, più volte espressa da Freud, di educare il sessuale – disciplinarne le pulsioni multiformi, addomesticarne i corpi affinché possano salvarsi da quanto minaccia la loro stessa inscrizione in società – trova dunque una puntuale proiezione nella vocazione pedagogica della politica, che con il suo tentativo incessante di governare la produzione di legame sociale, si vede costretta a sublimare il sessuale. Da qui i costanti tentativi di circoscriverlo alla dimensione privata dei viventi, o sviarne il corso verso mete socialmente riconosciute e certificate, fossero anche le mete dell’odio e della violenza organizzati, come se la ricerca di riscatto dalla negatività che alberga in ciascuno dovesse condurre a individuarla appassionatamente nell’altro (l’altro omosessuale, paradigma stesso del sessuale scabroso secondo la politica istituzionale italiana; ma anche l’altro della razza, su cui Frantz Fanon e Stuart Hall hanno scritto pagine imprescindibili). Illuminanti su questo punto sono i passi dedicati alla questione dell’omonazionalismo, con il suo seguito di pretese votate a una logica di assimilazione e neutralizzazione della propria differenza entro i ranghi di un feroce nazionalismo neoliberale: un fenomeno che ha repentinamente smentito le ottimistiche visioni di chi, come Klaus Theweleit e Jonathan Littell, scommetteva sulla sostanziale incompatibilità tra omosessualità e fascismo.
Conclusione
Coerente con una simile preoccupazione teorica e politica a un tempo, nelle pagine conclusive del suo libro Bernini ammonisce tutti coloro che, convinti di riporre la propria felicità in un processo di integrazione passante attraverso il conformarsi agli standard di comportamento vigenti in società, finiscono per accontentarsi di un riconoscimento pagato al prezzo del sacrificio di una parte di sé e degli altri. Questo perché, nonostante la cifra esorbitante con cui il sessuale marchia i corpi, non vi è nulla che possa salvaguardare questi ultimi dalla loro riappropriazione politica, entro una congiuntura storica segnata dalla messa a valore e dalla mercificazione tanto delle identità quanto del desiderio.
D’altra parte, se nella nostra cultura, il processo di civilizzazione si è fondato sul tentativo di esorcizzare il pericolo che il sessuale rappresenta per la vita associata, tale impresa si è avvalsa tanto di forme poliziesche di repressione, quanto, più sottilmente, di forme inclusive di riconoscimento (di cui il rito del matrimonio costituisce solo una delle forme, a fianco di quelle che docilmente liquidano i corpi nelle frange spettacolari della moda, della musica e del successo, rassicurando chiunque sul presunto carattere privatistico del godimento).
Sbiadita la carica sovversiva delle pratiche di liberazione sessuale, i movimenti lesbici e gay rischiano allora a ogni passo di imboccare una strada già battuta: cercare riscatto dallo stigma che li colpisce in quanto soggetti sensuali mediante una nuova ondata di «desessualizzazione del sessuale» (p. 264), in tutto omologa a quella che si era già accompagnata alla crescente fortuna dei cosiddetti gender e queer studies.
E tuttavia, se questi studi conservano ancora una carica politica sovversiva, benché in parte addomesticati dal mercato accademico nel corso del loro processo di istituzionalizzazione, è perché non hanno abbandonato la loro vocazione a posizionarsi all’interno del politico, pensando la differenza (del) sessuale non come attesa di assimilazione nella società, ma come occasione di trasformazione.