La casa editrice Ombre Corte ha ripubblicato il ‘Discorso sul Colonialismo’ di Aimé Césaire (introduzione e cura di M.Cellino).
Una ristampa importante e significativa di uno dei testi imprescindibili dell’ormai immenso e variegato archivio postcoloniale, pubblicato per la prima volta nel 1950. Césaire, intellettuale e politico martinicano, con il suo testo più celebre muove un atto d’accusa al cuore dell’Europa e alla sua cultura umanista e borghese.
Un’opera fondamentale che aiuta a rileggere la tragedia della seconda guerra mondiale inserendola in una prospettiva storica globale, forzando la coscienza moderna europea a fare i conti con il colonialismo e lo sterminio dei popoli colonizzati. La rimozione dell’esperienza coloniale dalla storia europea era e rimane una delle questioni che, oggi come allora, accomuna schieramenti politici e posizioni culturali apparentemente in contrasto e rivali. Una questione che invece resta imprescindibile per comprendere come razza e razzismo non debbano essere considerati come eccezioni da attribuire a soggetti estremisti e/o fanatici, bensì come elementi costitutivi della storia e della cultura europea.
È da questa prospettiva suggerita dall’autore che oggi riteniamo si debba guardare anche alla gestione razziale delle migrazioni e alla discriminazione istituzionale dei cittadini postcoloniali all’interno delle società europee. Ringraziando l’editore, pubblichiamo l’estratto iniziale del libro.
“Una civiltà che si dimostra incapace di risolvere i problemi causati dal proprio funzionamento è una civiltà decadente. Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte alle questioni cruciali è una civiltà compromessa. Una civiltà che gioca con i propri principi è una civiltà moribonda” – Il fatto è che la cosiddetta civiltà “europea”, la civiltà “occidentale”, così come è stata forgiata da due secoli di regime borghese, è incapace di risolvere i due problemi principali che la sua stessa esistenza ha generato: la questione del proletariato e la questione coloniale. Posta sul banco degli imputati, sia di fronte alla “ragione” che di fronte alla “coscienza”, quest’Europa si trova nell’assoluta impossibilità di giustificarsi, e il suo ipocrita tentativo di difendersi risulta tanto più odioso quanto più si mostrano evidenti i suoi sforzi di trarci ancora in inganno.
A quanto pare, questa è la voce che circola, a livello confidenziale, tra gli strateghi americani. In sé ciò non è grave. La cosa grave è che “l’Europa” sia moralmente, spiritualmente indifendibile. E oggi accade che a incriminarla non siano più soltanto le masse europee, poiché l’atto d’accusa è stato lanciato su scala mondiale da decine e decine di milioni di uomini i quali, dall’inferno della schiavitù, si ergono a giudici. Si può uccidere in Indocina, torturare in Madagascar, imprigionare in Africa Centrale, seviziare nelle Antille, ma ormai i colonizzati sanno di avere un vantaggio sui colonialisti. Essi sanno che i loro provvisori “padroni” mentono. Quindi, che i loro padroni sono deboli. E poiché oggi mi viene chiesto di parlare della colonizzazione e della civiltà, è bene affrontare immediatamente e senza preamboli la principale menzogna da cui scaturiscono tutte le altre.
Colonizzazione e civiltà? Nel trattare questo argomento, il rischio maggiore consiste nel restare vittime in buona fede di un’ipocrisia collettiva, di un’illusione perfettamente capace di porre i problemi in modo sbagliato per poter ancor meglio legittimare le sue abiette soluzioni.
Questo significa che il punto essenziale consiste nel vederci chiaro, nel pensare in modo limpido, nel non farsi scrupolo alcuno e nel rispondere in modo altrettanto chiaro all’innocente domanda iniziale: in che cosa consiste, nei suoi principi, la colonizzazione? Diciamo subito ciò che essa non è: non è evangelizzazione, non è un’impresa filantropica, non esprime alcuna volontà di sconfiggere l’ignoranza, le malattie, la tirannide, di diffondere Dio o di estendere il Diritto. Ammettiamo, una volta per tutte, senza paura delle conseguenze, che qui stiamo parlando dell’azione decisiva dell’avventuriero, del pirata, del grande mercante di spezie, dell’armatore, del cercatore d’oro, del commerciante, della bramosia e della forza, su cui si proietta l’ombra, certamente malefica, di una forma di civiltà che, a un dato momento della sua storia, si è trovata costretta, a causa di esigenze interne, a estendere su scala mondiale il regime della concorrenza delle proprie economie antagoniste.
Proseguendo la mia analisi, ritengo che l’ipocrisia sia recente, e cioè che né Cortez dall’alto del grande Teocalli durante la scoperta del Messico, né Pizzarro davanti a Cuzco (ancor meno Marco Polo davanti al Cambulac) si siano vantati di essere i portavoce di un ordine superiore. Certo, hanno ucciso, hanno saccheggiato, possedevano elmetti, lance, erano avidi. Tuttavia, gli impostori sono venuti dopo. In questo ambito, il grande responsabile è stata la pedanteria cristiana, poiché ha posto delle equazioni del tutto disoneste: cristianesimo=civiltà; pagani=selvaggi. Era chiaro che queste premesse non potevano che sfociare nelle conseguenze abominevoli del colonialismo e del razzismo, le cui vittime dovevano essere gli Indiani, i Gialli e i Negri.
Detto questo, anch’io sostengo che mettere in contatto le civiltà è positivo, che far coesistere dei mondi diversi è una cosa eccellente, e che una civiltà, qualunque sia il suo spirito, se si chiude in se stessa rischia di marcire. Anch’io sostengo che lo scambio è come l’ossigeno e che la grande fortuna dell’Europa è stata quella di essere un crocevia di tutte le idee, di tutte le filosofie, un ricettacolo di tutti i sentimenti, un fatto che le ha consentito di diventare il centro migliore per la redistribuzione delle energie.
Ma è proprio per questo che pongo la seguente domanda: la colonizzazione ha davvero messo in contatto?
La mia risposta è no. E dirò inoltre che tra la colonizzazione e la civiltà vi è una distanza infinita, poiché da tutte le spedizioni coloniali prese insieme, da tutti gli statuti coloniali promulgati, da tutte le circolari ministeriali emanate, non si riuscirebbe a ricavare un solo valore umano.
Bisognerebbe innanzitutto studiare in che modo la colonizzazione contribuisce a decivilizzare il colonizzatore, ad abbrutirlo nel vero senso della parola, a degradarlo, a risvegliare in lui quegli istinti reconditi di cupidigia, di violenza, di odio razziale, di relativismo morale e mostrare come, ogni volta che in Vietnam si taglia una testa o si strappa un occhio e in Francia lo si accetta; ogni volta che una ragazzina viene stuprata e in Francia lo si accetta; ogni volta che un malgascio subisce un supplizio e in Francia lo si accetta vi sia una conquista della civiltà che pende dal suo peso morto, il verificarsi di una regressione universale, l’infiltrazione di una cancrena, l’estendersi di un focolaio di infezione; e come in fondo a tutti i trattati violati, a tutte le bugie diffuse, a tutte le spedizioni punitive tollerate, a tutti i prigionieri legati e “interrogati”, a tutti i patrioti torturati, in fondo a questo incoraggiamento dell’odio razziale e dell’ostentazione dell’arroganza vi sia il veleno instillato nelle vene dell’Europa e il progresso lento, ma sicuro, dell’imbarbarimento del continente.
E così, un bel giorno, la borghesia viene svegliata improvvisamente da un formidabile contraccolpo: le Gestapo si danno da fare, le prigioni si riempiono, i torturatori creano, si perfezionano, discutono intorno alle macchine di tortura. Ci si stupisce, ci si indigna. Si dice: “Com’è strano! Ma sì, è il nazismo, passerà anche questo!” E si aspetta, e si spera; e si nasconde a se stessi la verità, che siamo di fronte alla barbarie, ma a una barbarie suprema, quella che corona e riassume la quotidianità di tutte le barbarie; che si tratta di nazismo, certo, ma che prima di esserne le vittime ne siamo stati dei complici; che quel nazismo lo si è sostenuto prima di subirlo, lo si è assolto, si è chiuso un occhio, lo si è legittimato, perché, sino a quel momento, era stato esercitato con i popoli non europei; che quel nazismo lo si è alimentato, se ne è responsabili, e che sgorga, penetra, sgocciola, prima di inondare con le sue acque insanguinate tutte le fessure della civiltà occidentale e cristiana.
Sì, varrebbe proprio la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del xx secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero, che Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone e che, pur biasimandolo, manca di coerenza, perché in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, l’umiliazione dell’uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa. È questo il grande rimprovero che rivolgo allo pseudo-umanesimo, e cioè di aver, per troppo tempo, sminuito i diritti dell’uomo e di averne avuto, e di averne ancora, una concezione ristretta e limitante, parziale ed esclusiva e, tutto sommato, odiosamente razzista.
Ho parlato molto di Hitler, soprattutto perché ne vale la pena. Si tratta di un fenomeno che ci consente di avere una visione d’insieme per comprendere come la società capitalista, allo stato attuale delle cose, sia incapace di fondare un diritto dei popoli e si dimostri impotente nel fondare una morale individuale. Che piaccia o meno, in fondo al vicolo cieco Europa, voglio dire in fondo all’Europa di Adenauer, Schuman, Bidault e qualche altro, vi è Hitler.
È a questo punto che una delle sue frasi si impone alla mia attenzione: “Noi non aspiriamo all’uguaglianza, ma alla dominazione. I paesi estranei alla nostra razza dovranno ridiventare paesi di servi, di braccianti agricoli o di lavoratori industriali. Non si tratta quindi di sopprimere le disuguaglianze tra gli uomini, ma di ampliarle e di trasformarle in legge”. È un discorso chiaro, sprezzante, brutale, che ci riporta a uno stato di barbarie furiosa. Ma scendiamo ancora un gradino.
Chi sta parlando? Ho vergogna a dirlo: è l’umanista occidentale, il filosofo “idealista”. Poco importa che si chiami Renan, è solo un caso. L’uomo del popolo, dalle nostre parti, è quasi sempre un nobile decaduto. La sua mano pesante è più adatta a impugnare una spada, che non un attrezzo servile. La natura ha creato una razza di operai, è la razza cinese, dotata di una stupefacente destrezza manuale e pressoché priva di qualunque senso dell’onore. Governatela con giustizia, prelevando, per il beneficio di un tale governo, un’importante gabella a beneficio della razza conquistatrice, e loro saranno soddisfatti.
I negri invece sono una razza adatta a lavorare la terra. Siate buoni e umani e tutto andrà bene. La razza europea è una razza di padroni e di soldati. Se costringete questa nobile razza a lavorare nell’ergastulum come i negri e i cinesi essa si ribellerà. Ogni ‘nostro’ ribelle è, più o meno, un soldato mancato, un essere votato all’eroismo che, se costretto a compiti contrari a quelli della sua razza, si rivelerà un pessimo operaio, proprio in quanto ottimo soldato. La vita che i nostri lavoratori ripugnano renderebbe felice un Cinese, un fellah, esseri completamente alieni alla vita militare. Che ognuno faccia ciò a cui è destinato, e tutto andrà bene”.
Dove voglio arrivare? A questa idea: nessuna colonizzazione è innocente, nessuna colonizzazione agisce impunemente; ogni nazione colonialista, ogni civiltà che giustifica la colonizzazione – e dunque l’uso della forza – è da ritenersi una civiltà malata, una civiltà moralmente compromessa che, di conseguenza, continuando a rinnegarsi, richiama il suo Hitler, voglio dire il proprio castigo.
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