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Padovaland: cos’è la vita nella provincia veneta

Padovalan, è uscito il racconto a fumetti di Miguel Vila che mette insieme nel racconto coralità e provincia veneta. Una storia da leggere.

Uscito da pochi mesi, l’esordio del disegnatore Miguel Vila è costruito con grande armonia attorno a due concetti chiave: coralità e provincia. Il libro racconta la vita di una compagnia di ragazzi nella periferia veneta, dando voce e colori ad amori, inimicizie, università, lavoro… La coralità della narrazione è anticipata dal titolo stesso, prendendo in prestito il nome di un acquapark locale. Padovaland, come un parco divertimenti dove di divertente c’è ben poco se non per l’occhio sadico di chi guarda. Chi rincorre i propri obiettivi fa pochi metri, rimanendo nella culla di una città provinciale in cui l’offerta migliore è la possibilità di andare via. La metafora invita a osservare con sguardo voyeuristico i protagonisti della storia.
Ci aiuta il segno di Vila, niente affatto pigro davanti ai dettagli più interessanti della figura umana: rughe, foruncoli, tatuaggi, pieghe dei vestiti. Nulla sfugge alla penna dell’autore, che, dietro al suo tratto architettonico per cui tutto è importante, nasconde le chiavi interpretative della storia. I personaggi sono caratterizzati come sono disegnati: pieni di interessanti sfaccettature. Tra loro non c’è nessun eroe per cui fare il tifo, nessuno intraprende una crescita spirituale. Mano a mano che il racconto prosegue tutti rivelano piuttosto una natura inaffidabile, egoista ma anche coraggiosa o speranzosa, insomma, umana.
I riflettori del palco di Padovaland non puntano su chi riesce a risolvere i propri problemi ma su come si articolano e si intersecano tra di loro vite che sembrano avvicinate dal fatto che non esiste un’alternativa. C’è chi si abbandona a relazioni tossiche, chi sparisce, chi cerca l’amore ma non viene preso sul serio.
Chi fatica a continuare l’università, come Irene, che si prende una pausa per lavorare in un centro commerciale, oppure Giulia, personaggio che apre e chiude la storia, e, nonostante l’attrito con i professori, dedica all’architettura padovana il proprio progetto di laurea, fotografando ville, rustici e acquedotti con l’aria di chi, nonostante tutto, prova un grande fascino per le proprie origini ma non riesce ancora a spiegarsi il perché.

Curiosi di saperne di più sulle idee dietro la costruzione di questo libro, abbiamo intervistato Miguel Vila.

Padovaland è il racconto di tante vite che si intersecano. Durante la storia, tutti i personaggi hanno lo spazio per esprimere le proprie intenzioni. È difficile individuare un vero protagonista. Qual è, se c’è, il fatto o il personaggio che ha ispirato la storia? Perché?

“Mi sembra di ricordare che la primissima sottotrama concepita per Padovaland fosse stata quella di Fabio e il suo ospite olandese, la quale, paradossalmente, ho sviluppato con meno interesse. Questo perché agli albori del progetto cercavo di inventarmi storie che si ispirassero esclusivamente alla mia vita, cosa di per sé limitante. La verve creativa è scattata solamente quando ho messo in campo due personaggi provenienti da persone esterne, ovvero Irene e Giulia: è curioso, ma ogni volta che dovevo disegnare una di loro mi si apriva il cuore; loro come persone, corpi, facce, atteggiamenti mi sembravano perfette in qualsiasi scena. Erano i due “fuochi” caratteriali su cui ruotano tutte le interazioni di Padovaland, non a caso ci sono loro nella copertina. Sebbene anche gli altri personaggi siano nati per ispirazione dalle mie amicizie, non condividono la stessa forza fisica e psicologica di Ire e Giulia”.

Qualcuno ha detto che un libro è pronto quando non c’è più niente da togliere. L’architettura di Padovaland è fitta quanto la fauna che la vive, eppure tutto è essenziale: la folla nel centro commerciale, le decorazioni sui capitelli dei rustici… Elementi che orbitano l’uno intorno all’altro in modo così preciso che sembrano nati da un’unica grande esplosione di idee. Il tuo libro è nato da una grande quantità di idee che hai poi ordinato oppure hai costruito il mondo di Padovaland personaggio per personaggio?

“Ho voluto parlare di una città millenaria come Padova scegliendo un modo poco convenzionale: non prendevo più come riferimento il suo nucleo originario ma piuttosto i suoi confini indefiniti, ovvero la provincia. La scelta di un habitat extraurbano mi permetteva un’analoga mancanza di regole e “cacofonia estetica” nella creazione dei paesaggi. Niente vincoli troppo rigidi, dovevo solamente un po’ analizzare i componenti del mondo reale, per poi farci quello che volevo. È stato come riorganizzare un piccolo caos”.

Ci sono poi personaggi che hanno una storia oltre la storia, come ad esempio Luisa, cui vengono dedicate frasi scritte sull’asfalto, qualche pettegolezzo e dei messaggi vocali mandati dall’amica Chiara. Queste informazioni però ci bastano per seguire gli sviluppi della difficile situazione tra lei e l’ex ragazzo. Aprire un racconto a trame che si sviluppano, in modo coerente, all’infuori del libro stesso è un’operazione molto difficile. Si tratta di una strategia creativa che hai considerato fin dall’inizio oppure ti è stata suggerita dalla direzione che stava prendendo la storia?

“Molte decisioni sono nate proprio come delle intuizioni consigliate dal caso. Parlando appunto di Luisa, io per poco non mettevo Catia come la ragazza perseguitata dall’ex, ma poi ho pensato che così avrei detto troppo su una vicenda che di per sé era già raccapricciante al punto giusto. Inoltre, mentre disegnavo le scene, ho imparato che il lettore non va per forza riempito di informazioni superflue, e specialmente se si parla di emozioni: l’angoscia provata da Luisa arriva molto meglio se non la si vede nemmeno”.

Parlando delle caratteristiche della provincia che emergono nel libro ci sono due temi di cui vorremmo chiederti. Nel racconto si distingue un brulichio di voci continue, come se “le voci di bottega”, tipiche dei piccoli paesi, caratterizzassero anche la vita in una città universitaria decisamente più grande. In che forma, questa dimensione paesana, appartiene a Padova?

“Ho voluto rappresentare una mentalità provinciale che non appartenesse esclusivamente ai campi: è vero che la vita extraurbana è diversa da quella di città, però è anche vero che oggi, in tempi di crisi urbanistiche e consumo del suolo, le due dimensioni si sono mescolate l’un l’altra. Perciò, in un ambiente ipermoderno come un centro commerciale, abbiamo dei colleghi che sanno tutto di tutti come in un paesino di tremila anime, e nel frattempo vediamo un’aspirante fotografa che gira per la piana, intenta a comprendere come funziona quello spazio barcollante fra vecchio e nuovo”.

Un’altra cosa che è impossibile non notare è la fragilità dei personaggi maschili. Anche quelli che appaiono più sicuri di sé tradiscono la propria immagine rivelando identità fittizie o grosse difficoltà relazionali, rappresentate in modo impeccabile. Cosa ti ha portato a concentrarti su questo aspetto in particolare?

“Non mi piaceva l’idea di costruire un fumetto con protagonisti e antagonisti per cui sai quali parti prendere, non penso che nella vita reale funzioni così. Perciò se voglio rappresentare, ad esempio, un contesto sessista lo faccio per come lo è davvero: un sistema dove a chiunque, femmina o maschio, viene assegnato un ruolo preciso. I ragazzi di Padovaland devono essere sportivi, intraprendenti, loquaci, e soprattutto carismatici 24 ore su 24. Non c’è cosa peggiore di un uomo noioso”.

Un’ultima domanda: siamo curiosi di sapere come lavori! Sei uno di quelli che si organizza i progetti in turni di 9 ore al giorno (che spesso e volentieri, lo sappiamo, sono 12 o 14 ore…), distribuite in vari mesi, oppure ti lasci prendere dall’impulso creativo, disegnando senza sosta giorno e notte tutto d’un fiato? A quale parte del processo creativo dedichi più energie?

“In una prima fase, quando preparavo le “fondamenta” di Padovaland (scrittura del soggetto, scaletta, personaggi ecc.), stabilivo un tempo di 8 ore al giorno, ma che alla fine rispettavo a malapena per via di numerosi blocchi creativi. Penso che la progettazione della storia sia la parte di lavoro più angosciante, perché manca di quella meccanicità che trovo invece nei definitivi. Non a caso, quando sono passato alla realizzazione delle tavole, le 8 ore giornaliere diventavano 10 e le riempivo tutte ininterrottamente. Il lavoro era sempre duro però sapevo quello che dovevo fare, tutto veniva da sé, e se un particolare non funzionava lo rifacevo finché non ne ero convinto”.

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