Nel giugno del 2019 l’Unione Europea e i suoi stati membri, in particolare Italia, Francia e Germania, sono stati accusati da un gruppo di avvocati presso la Corte Penale Internazionale dell’Aja di crimini contro l’umanità per le modalità con cui le autorità, comunitarie e nazionali, hanno gestito la rotta migratoria nel Mar Mediterraneo a partire dalla sua esplosione, nell’ormai lontano 2014.
Era quel giugno dove la nave Sea-Watch 3 veniva lasciata alla deriva con 42 naufraghi per due settimane, era il mese dell’accanimento politico su Carola Rackete. Come ogni anno era l’inizio di quella stagione da pinne, fucile ed occhiali che dal 2017 viene cavalcata dai ministri dell’interno di turno. Quelli che “chiudevano” porti, criminalizzavano ONG e mostrificavano migranti. Preparavano, insomma, il terreno su cui seminare i presupposti per un bel decreto in materia di sicurezza e immigrazione che riuscisse, possibilmente, ad essere maggiormente restrittivo di quello dell’anno precedente.
Questa attenzione mediatica e politica verso la rotta migratoria del Mediterraneo centrale che dal 2017 ha monopolizzato il discorso pubblico permetteva, nel frattempo, che su altri confini più a oriente si consumassero indisturbate atrocità altrettanto inaudite. E con inaudite non si vuole solo sottolinearne la gravità ma anche la scarsità nella diffusione, la pressoché assenza dal panorama giornalistico, incentrato sul dramma dei naufraghi, comodo alla necropolitica. Stiamo parlando delle violenze che vengono perpetrate alle persone migranti che percorrono, per lo più a piedi, la cosiddetta rotta Balcanica, quella che dalla Turchia arriva fino ai confini con i paesi dell’UE di Ungheria e Croazia. Di queste violenze si parla in “Bosnia: l’ultima frontiera” a cura di Gabriele Proglio, pubblicato per Eris Edizioni nella collana di saggi BookBlock lo scorso giugno.
La raccolta di racconti
Il libro è l’ennesimo atto, si spera non finale, di un lavoro di racconto che lo storico e ricercatore per l’Università di Coimbra sta portando avanti dalla primavera del 2019, quando si è recato al confine tra la Bosnia Erzegovina e la Croazia assieme a Benedetta Zocchi, dottoranda per la Queen Mary University. È da rintracciare in quel periodo infatti l’inizio del rinnovarsi di un’attenzione pubblica verso la rotta Balcanica, che tutt’oggi ancora cresce assieme al numero delle storie delle quotidiane violazioni dei diritti umani che avvengono in Krajina. Quest’ultima è una regione geografica militarizzata da cinque secoli. Un luogo dove la gente locale il confine “ce l’ha nel sangue” e che dalla primavera del 2018 è cominciato ad essere attraversato dai primi gruppi di afghani, siriani, iraniani, come racconta nel libro Silvia Maraone, operatrice umanitaria dell’ONG Ipsia.
“Bosnia: l’ultima frontiera” è una raccolta di racconti che si possono inserire nel novero di quelli già pubblicati online dai coautori, ma che trovano in quest’agile libro il pregio di essere avvicinati. Permettendoci così di passare dalla descrizione delle condizioni dei campi gestiti dall’OIM (l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni a cui l’UE ha appaltato la gestione della rotta) in cui, come riporta la fotografa Emanuela Zampa “non c’è luce” – perché il campo di Bira, uno dei quattro campi OIM che sorgono in Krajina tra Velika Kladuša e Bihać, è ospitato da una vecchia fabbrica di frigoriferi abbandonata dall’interno della quale non si vede il cielo – all’analisi psicologica del trauma che vivono i “corpi di dolore” descritti da Lorena Fornasir, psicologa e attivista dell’associazione Linea d’ombra ODV di Trieste a cui viene devoluto il 12% del prezzo di copertina del libro.
In un testo del 1943, We refugees, la teorica della politica Hannah Arendt introduce la nuova figura del rifugiato come quella categoria che privata di tutto (Stato, diritti, speranza, casa, occupazione, lingua, parenti – di tutto ciò che, se vogliamo, ci rende umani) rimane talmente sguarnita da esprimere un cortocircuito in cui si rimane degli esseri umani la cui vulnerabilità è espressa dal non essere “nient’altro che umani”.
La testimonianza di Proglio
Questa condizione è ancora oggi rintracciabile nelle storie delle vite migranti che si affastellano sul confine tra Bosnia Erzegovina e Croazia e che vengono quotidianamente picchiate, derubate, torturate e rispedite indietro ogni qualvolta tentino il game: il sadico gioco in cui o vinci o perdi tutto. Così viene chiamato dalle persone migranti l’incessante tentativo di sfuggire alle maglie dei controlli e dei manganelli (se non dei proiettili) della polizia croata che opera illegalmente dei pushback (respingimenti coatti fatti in barba ad ogni diritto internazionale), come ci racconta Benedetta Zocchi, descrivendo l’odierna condizione migrante come quella di un moderno Sisifo: condannata ad una punizione che si rinnova ogni giorno.
E se “è più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella degli uomini famosi e celebrati” citando Walter Benjamin, laddove “alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione storica” ritroviamo forse l’auspicio su cui questo libro nasce: dare voce, fare memoria di quelle migliaia di senza nome dimenticati nei campi di Bosnia Erzegovina. Sono questi racconti che vengono salvati in “Bosnia: l’ultima frontiera”. È in questa testimonianza che ne va di quella consacrazione in cui Proglio, all’inizio del lavoro cominciato nell’aprile 2014, trovava il senso del suo essere uno storico. In quelle storie che stanno “nelle pieghe del sapere, dove si incontrano soggettività e storie. […] Fuori dal centro, sui margini del mondo. Là dove le storie non diventerebbero mai storia.”
Oggi più che mai è impellente costruire (scrivendo dossier e racconti, parlando, allestendo mostre, filmando) questo tipo di memoria che conserva gli “stracci della storia” e ne fa storia, che recupera il continuo rimosso di uno scarto collettivo di vite che vengono continuamente massacrate lungo i confini di un’Unione Europea che meriterebbe, se non fosse già abbastanza grave la prima sopracitata, di essere accusata di crimini contro l’umanità un’altra volta ancora, risultando così doppiamente colpevole.