Un dialogo a due voci tratto dal libro di Claudio Vercelli dal titolo: “Neofascismo in grigio. La destra radicale tra l’Italia e l’Europa”.
FM: Inizierei questo nostro dialogo a partire da Neofascismo in grigio cercando di sintetizzarne alcune tesi di fondo. In seconda battuta proporrei di sviluppare alcune questioni che non toccano direttamente il libro ma che trovo rilevanti, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra quello che Vercelli chiama neofascismo o destra radicale, razzismo e sistema liberal democratico.
Quello di Vercelli si presenta come un testo agile e denso allo stesso tempo che cerca di fare il punto sui movimenti e gli schieramenti della destra radicale, con uno sguardo che potremmo dire transnazionale. Anche se infatti il focus primario rimane l’Italia e l’Europa, la sua analisi sulla colonizzazione del web da parte del pensiero radicale di destra, e sulle teorie del complotto, lo porta a muoversi anche verso l’altra sponda dell’Atlantico, restituendoci un universo eterogeneo che però condivide alcune premesse e assunti ben definiti. Potremmo dire che obiettivo principale del libro dello storico torinese è quello, da un lato, di mostrare la permanenza e la malleabilità di una cultura di destra che ha origini e si nutre a livello di immaginario, e non solo, del fascismo storico e, dall’altro, cercare di descrivere quali sono i caratteri salienti e caratterizzanti di questa postura mentale e politica nell’attuale congiuntura storica. Su questo secondo aspetto le tesi di Vercelli si avvicinano molto a quelle di altri studiosi che vedono quella che potremmo definire un’affinità elettiva tra estremismo di destra e populismo, portandolo a parlare di neopopulismo fascistizzante. Senza entrare nella diatriba teorica oramai decennale sul populismo, mi sembra importante riprendere alcuni tratti evidenziati da Vercelli. Quello che lui definisce neopopulismo fascistizzante «non si presenta come potere bensì come esercizio di contropotere» (p. 1), facendosi rappresentante di quei ceti bianchi che in questi anni hanno vissuto una notevole crisi socio-economica e, di conseguenza, identitaria, sentendosi così estromessi dai processi decisionali e politici tout court. A questa situazione di esclusione e marginalizzazione l’estrema destra cerca di capitalizzare un consenso proponendo chiavi di lettura semplificate e fittizie, ma sempre tremendamente efficaci: la valorizzazione mitica del passato della nazione fatta di sangue e suolo, la costruzione simbolica e discorsiva di un popolo-famiglia universale, il ripudio della democrazia rappresentativa verso modalità più corporative, il rifiuto del pluralismo, la creazione di nemici ben definiti da dover combattere, sarebbe meglio dire sterminare, per poter riguadagnare una centralità perduta.
MT: Uno dei pregi del libro di Vercelli è proprio l’attenzione portata sulla facilità con cui il discorso fascista penetra entro una società che si sente incapace di rispondere alle sfide presenti, così come di immaginare un futuro qualsiasi. Come scrive l’autore, «l’autoritarismo non necessita, al giorno d’oggi, di governi forti bensì di società fragili» (p. 9), entro le quali si fanno sempre più pressanti richieste di tutela e di protezione di tipo reattivo e ansioso, lontane da una qualche pur necessaria rivendicazione di diritti. Da questo punto di vista, la cultura di destra sta riuscendo là dove altre proposte politiche hanno arrancato per decenni, ossia nel rielaborare l’attuale situazione di instabilità sistemica traducendola in un lessico comprensibile e condivisibile da una parte della società. Un lessico che, se da un lato non è in grado di fornire altro che risposte regressive, già ampiamente dimostratesi inefficaci (oltre che antidemocratiche e illiberali) su un piano politico, dall’altro eccelle come vettore di coesione sociale nel riaggregare individualità contemporanee incapaci di rispondere altrimenti alla propria marginalizzazione politica. Si tratta, d’altra parte, di una constatazione che ha sempre accompagnato le più lucide analisi del fenomeno fascista, interessate a mostrare come la reazione non sia tanto l’opera terribile di alcuni individui, eccezionali o diabolici, bensì l’esito di una situazione comune, collettiva, storicamente situata. Già nel 1933 un intellettuali militanti come Wilhelm Reich ricordavano che sono state proprio le masse impoverite ad aver contribuito all’estrema reazione politica, ad essersi dunque ritrovate, inaspettatamente, a desiderare il fascismo… Con questo non si vuole certamente accusare le cosiddette masse o i cittadini di essere tendenzialmente fascisti, quanto piuttosto suggerire uno spostamento di attenzione dalla figura, sempre così patinata e seducente dei leader, specchietti per allodole quando non veri e propri specchi identificatori, alle dinamiche con cui tali simboli del potere circolano producendo relazioni e pratiche quotidiane.
Per quanto riguarda il contesto italiano, sicuramente in ciò ha giocato un ruolo importante la lunga esperienza che il discorso fascista ha potuto maturare nel suo tentativo di sopravvivere, “esule in patria”, in una democrazia nata sulle rovine del fascismo di regime. Decenni di attività di opposizione politica, culturale, editoriale e talvolta persino istituzionale, hanno permesso al discorso fascista di presidiare a lungo una posizione di contropotere, coronata in qualche modo dall’ingresso al governo dell’MSI negli anni Novanta. Se, da un lato, questo salto si è accompagnato a un evidente ridimensionamento del patrimonio ideologico fascista (impaziente, in alcuni casi, di liberarsi dei più ingombranti fardelli nostalgici), dall’altro ha accompagnato lo rimodulazione dei temi dell’agenda politica in chiave fascista, ormai incorporati anche da forze politiche istituzionali. È con sconforto e imbarazzo che, quotidianamente, si è costretti a riconoscere come i temi trattati da buona parte dell’arco istituzionale si sovrappongono pacificamente a quelli promossi dai nuovi fascisti del terzo millennio: certo, possono entro un certo grado variare le proposte, ma il perno ideologico che le orienta e a attorno a cui ruotano resta il medesimo. Si direbbe quasi che la funzione storica del discorso fascista sopravvissuto al crollo del regime, oltre settant’anni fa, sia stata proprio quella di persistere e conservarsi fino al momento opportuno in cui dissolversi nel campo politico, contaminandone i linguaggi e le pratiche.
Dietro all’uso di un concetto come neopopulismo fascistizzante vi è allora la preoccupante osservazione che la recente riscoperta di uno stile politico populista (quale reazione alla frammentazione sociale contemporanea e allo scontento di fronte a un individualismo proprietario esperito sempre meno nelle sue iniziali promesse di libertà e sempre più nei suoi aspetti di marginalizzazione) sta finendo per saldarsi con contenuti dichiaratamente fascisti, razzisti, ostili a una concezione democratica della politica. Assistiamo, in altri termini, alla proliferazione di simboli e linguaggi della destra radicale anche in ambienti che non oserebbero affatto riconoscersi in un simile retaggio, e che nemmeno saprebbero riconoscere, d’altra parte, un debito tanto scomodo. Credo che questo sia proprio l’obiettivo del titolo scelto da Vercelli: indicare un neofascismo che non veste forzatamente né orgogliosamente una camicia nera, ma che si confonde in atteggiamenti più incerti e sfumati, grigi appunto, senza per questo abbandonare il suo retaggio. In primo luogo, la sua capacità di offrire un atteggiamento vagamente sovversivo, un’aura rivoltosa capace di attrarre chiunque si trovi a disprezzare la politica istituzionale: quella che Robert Paxton chiama la sua “connotazione antipolitica”, e che ha saputo perseverare nonostante la stessa parentesi istituzionale attraversata da alcuni fascismi.
Per fare un esempio molto estemporaneo ma per provare a guardare alla materialità dei processi in corso, penso per esempio alle politiche cosiddette anti-degrado in varie città, che riguardano le amministrazioni di qualsiasi schieramento politico: non c’è forse alla base di questa idea di ripulire la città e lo spazio pubblico anche un profondo e malcelato impulso razziale di sanitizzare il corpo sociale dai soggetti subalterni? Penso in primis agli ambulanti, ai cittadini migranti e ai senza tetto. Su questo punto credo però sia sempre necessario fare una precisazione. Queste politiche ‘morali’ e razziali di pulizia non hanno mai un fine per così dire puramente estetico, ma si intrecciano in maniera strutturale con le nuove dimensioni del capitalismo contemporaneo. Per dirla in altri termini, il ‘decoro’ è capitalizzato anche, per esempio, da gruppi di investimento finanziari che comprano intere parti di città, e questo processo non fa che aumentare disuguaglianze e rafforzare l’esclusione razziale delle classi subalterne. Non vorrei avere semplificato troppo tematiche che meriterebbero uno spazio ben più ampio, mi sembra però importante sottolineare che queste retoriche e politiche regressive, siano complici, più o meno direttamente, dell’attuale fase di accumulazione neoliberale post crisi, compartecipando all’aumento decisivo delle disuguaglianze e della razzializzazione della società.
Questo secondo aspetto ci porta a una considerazione più ampia sul rapporto complesso tra democrazia, (neo)fascismo e razzismo in Italia, e più in generale nell’Europa occidentale. Provando a essere sintetici e a rischio di semplificare una questione molto articolata, credo che nell’attuale congiuntura rimanga importante ricordare come le politiche della razza e quella che alcuni studiosi hanno definito colonitalità del potere non siano mai state prerogative uniche del fascismo e di altri regimi totalitari, ma siano anche aspetti che strutturano la formazione delle moderne democrazie liberali fin da principio. Rimando qui a mo’ di esempio al classico Discorso sul Colonialismo di Césaire, nel quale l’autore martinicano ricorda come il nazismo sia da considerarsi come un elemento interno, quindi non eccezionale, alla cultura umanista illuminista borghese europea. Questo punto è per me fondamentale perché permette di concepire il rapporto tra democrazia, estremismi di destra e razzismo in maniera complessa, evitando troppo facili contrapposizioni. Questo, sia chiaro, non vuol dire assolutamente sottovalutare, liquidare e banalizzare i movimenti neofascisti. Né vuole significare che non esistano differenze, anche e soprattutto sostanziali, tra politica fascista e politica democratica. Quello che invece mi preme sottolineare è l’urgenza di rivalutare profondamente la questione del razzismo, provando a decolonizzare il nostro sguardo sul sociale per mettere in luce il razzismo istituzionale e democratico che è assolutamente sistemico, e che si svela continuamente nella materialità dello sfruttamento lavorativo e nella segregazione abitativa, per fare due esempi immediati, della popolazione immigrata e delle seconde generazioni che vivono in Italia. Queste considerazioni ci servono per evitare di produrre un pensiero che mentre denuncia, giustamente, gli estremismi si limiti a difendere il formalismo del pluralismo democratico. Le questioni formali implicano sempre anche un contenuto, delle soggettività storicamente incluse e altre escluse dalla cittadinanza democratica, che è un vero e proprio campo di battaglia. Inoltre, il razzismo funziona e opera dentro la politica economica della democrazia e mai solo come fenomeno culturale di certi gruppi, che spesse volte vengono usati come escamotage per autoassolvere un sistema nel quale la sua stessa matrice razziale sembra anch’essa risultarne mascherata.
MT: Certo, la sua espansione procede per mascheramenti, infiltrazioni e contagi, e anche per questo non possiamo non riconoscere la sua straordinaria capacità di condurre lotte intersezionali. Ne va della stessa utilità dell’uso della parola “fascismo” quale categoria euristica: una parola che è stato tanto usata e sciupata da rischiare pericolosamente di ridursi a un mero epiteto ingiurioso (o glorioso per alcuni…), un significante del tutto svuotato. Tutte le volte che si è cercato di estendere indiscriminatamente l’uso di tale termine si è finito non solo per compromettere la comprensione della situazione, ma anche, e soprattutto, per attuare strategie politiche miopi rispetto ai differenti soggetti e alle diverse dinamiche di volta in volta in gioco. Riflettere sui concetti di “neofascismo” o di “neofascismo in grigio” (come recentemente ha fatto anche Enzo Traverso in merito al “postfascismo”) è un lavoro necessario per poter limitare quella deriva intransigente della militanza antifascista che riconosce del fascismo in ogni processo politico a lei ostile.
I richiami al decoro di cui parli, così come quelli concernenti battaglie sociali di primo piano (ne abbiamo avuto diversi esempi lungo l’anno appena trascorso), si prestano a sancire alleanze tra le politiche del controllo e le pretese di un discorso neofascista che ambisce a rappresentare l’insicurezza di un’inclusione sociale sempre più precaria e asfittica. Non dimentichiamo le origini della tradizione fascista, che si è storicamente costituita proprio nel tentativo di canalizzare, di tecnicizzare, quei sentimenti di esclusione e di marginalità serpeggianti all’indomani della grande guerra: ancora oggi, ricorda Vercelli, ci troviamo di fronte a «un processo di fascistizzazione dal basso che cerca di costituire chances per se stessa partendo dalla base della piramide, quella composta da donne e uomini angosciati dalla portata dei mutamenti intercorsi in questi anni» (p. 56). E se, come riconosce l‘autore, «la forza del radicalismo di destra, infatti, è direttamente proporzionale alla crisi della democrazia sociale. Più indietreggia la seconda, maggiori sono gli spazi per il primo» (p. 94), le attuali politiche di erosione della componente propriamente democratica della democrazia non possono che muove in direzione di un rafforzamento del discorso fascista.
Due mi sembrano, a questo punto, le vie da percorrere. In primo luogo, riconoscere che molte delle cause di disagio additate dal discorso fascista (dai problemi del lavoro all’immigrazione, alla crisi della democrazia) sono percepite come tali non solo da chi si trova già pervaso da tale ideologia, bensì anche da molti di coloro che si trovano semplicemente travolti dai cambiamenti in atto. Emblematica in tal senso è proprio la questione già menzionata del decoro delle città e dei quartieri: negare che una simile questione esista significa negare anzitutto l’esperienza quotidiana dei molti che, giocoforza, finiranno per alimentare il connubio d’intenti tra gestione poliziesca delle strade (nonché delle vite) e propaganda neofascista; senza contare il prezzo in marginalità alto da pagare, per non aver saputo accogliere simili voci. Credo sia al contrario importante raccogliere le testimonianze del disagio, sottraendolo a una politicizzazione da destra. In secondo luogo, al fine di instaurare un dialogo davvero emancipatorio, è importante condividere un linguaggio, delle pratiche e dei discorsi che sappiano aprire orizzonti senza trincerarsi in lotte letteralmente reazionarie. Ricordiamo che la forza del linguaggio fascista è anche la sua stessa debolezza: le sue “idee senza parole” – le grandi idee con l’iniziale maiuscola che sembrano rispondere a ogni dubbio e risolvere ogni questione – sono sì fascinose, ma al contempo vuote, mummificate, ancorate a un passato che si dipinge come artificiosamente in vita. Si tratta, in altri termini, di non disertare i luoghi del confronto con il discorso fascista, andando piuttosto a riconfigurare diversamente il campo di battaglia delineato da quest’ultimo sia le possibili risposte da praticare e proporre.
FM: Su questo ultimo punto potremmo dire che la debolezza che giustamente hai individuato del discorso fascista è anche la sua forza. Proprio perché vuoto, ambiguo e istantaneo, questo lessico funziona e trova terreno fertile in una società che è debole, ma che ha anche, come dicevo prima, una matrice razziale nascosta che nei periodi di crisi come questo riaffiora per sancire delle coalizioni implicite tra gruppi dominanti. La cultura e il lessico della crisi proposto dalla destra vanno a toccare delle corde che carsicamente sono per alcuni versi state condivise anche da buona parte della cultura progressista. Si veda sulla questione immigrazione per esempio.
Detto ciò, concordo su quanto dici in merito alla necessità di costruire e inventare un linguaggio veramente alternativo in grado di scardinare l’ordine del discorso dominante, che gioco forza è sempre più appiattito verso posizioni di estrema destra. La questione credo non riguardi tanto quella di inventare questo nuovo linguaggio, quanto quello di renderlo efficace politicamente. Esistono realtà di movimento che fanno un lavoro contro-culturale e sociale veramente importante, a partire da istanze femministe e antirazziste. Tralasciando per un momento il tema delle alleanze e alle divergenze tra questi movimenti, il problema ulteriore rimane quello di rendere questi linguaggi e queste pratiche contro-egemonici. I linguaggi e le pratiche ci sono, esistono già..
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